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guerra, — disse poi. — Mentre i fascisti mandan carne da cannone, noi si perde dei quadri per niente. Loro attaccano. Loro hanno scelto il momento e il terreno.

— Qui si dice che è colpa dei russi.

Dal negozio chiamarono e Gina si mosse. — Non è niente, — ci disse dietro la tenda.

A bassa voce chiesi a Scarpa se sapeva di Torino. Dissi il nome di Amelio, e che stava in un letto. Non sapeva. A quel tempo era in Spagna. — C’erano i nostri mutilati, — mi rispose, — che finivano in mano al nemico. Ne ho veduti con gli occhi strappati.

Gina rientrò e con lei Giuseppe, che ci disse «Salute» e rimase a guardarci. Dopo un momento Scarpa smise di parlare.

— Questa notte, — gli fece Giuseppe tranquillo.

Poi Gina ci diede il caffè. — Quel tuo amico, — fa Scarpa, — non hai chiesto ai compagni di qui?

Parlammo allora di Torino e se qualcosa era successo.

— Caduti ne sono caduti, — diceva Giuseppe. — Non c’è nessuno che ci metta sui giornali.

— Qualche nome si legge.

— Quando dicono il nome è qualcuno che non morde, si sa, — fece Scarpa ridendo con gli occhi. — Soltanto se nessuno ne parla, è dei nostri.

Quella faccia bruciata era proprio da Spagna, e non c’era vissuto che nei mesi della guerra. Feci caso che gli occhi di Gina somigliavano ai suoi. Gina era chiusa ma il calore era lo stesso.

Né Giuseppe né Scarpa sembravano accorgersi che lei ci sentisse. A un certo punto richiamarono e Gina rientrò nel negozio. Noi parlavamo come prima. Ero il solo dei tre che pensasse alla tuta.

— Questa notte, — mi disse Giuseppe, — si voleva riunirci da te. Ma per qualcuno è fuori mano — . Mi spiegò dove Scarpa doveva trovarsi e di fare attenzione. Mi toccava montare la guardia. — Prendi magari la chitarra, è sempre buona.

Poi si alzò per andarsene. Passati loro dalla tenda, passai io. E nel negozio vedo Linda che aspettava.

Linda e Gina si guardavano, aspettando qualcosa. Era seduta su una cassa e non si alzò, mi disse: — Ciao — . Poi mi fece un sorriso maligno e aspettò che parlassi.

— Disturbo? — mi disse alla fine.


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