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nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, diciamo1 in mezza riga, in poche sillabe, una cosa sintetica e comprensiva, un midollo di realtà che vivifica e nutre tutto un organismo di passione, di stato umano, tutto un complesso concettuale. Se poi questo nome, questo gesto e prodigio ci è familiare fin dall’infanzia, dalla scuola — tanto meglio. L’inquietudine è piú vera e tagliente quando sommuove una materia consueta. Qui ci siamo accontentati di servirci di miti ellenici data la perdonabile voga popolare di questi miti, la loro immediata e tradizionale accettabilità. Noi abbiamo orrore di tutto ciò che è incomposto, eteroclito, accidentale, e cerchiamo — anche materialmente — di limitarci, di darci una cornice, d’insistere su una conclusa presenza. Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa difficoltà. Non abbiamo nulla in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri. Sappiamo che il piú sicuro — e piú rapido — modo di stupirci, è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà — miracoloso — di non averlo mai visto.

Tanta felicità senz’avventura nasce probabilmente dal fatto che sei aperto a tutte le avventure — te le vedi d’attorno, e non fai nulla per imporle o per subirle. Che cosa fai? Le vedi, vivi la tua mania, e ti conosci. Cambierebbe qualcosa a trovartici dentro?

Le opere di poesia vanno fatte com’è questa tua felicità. Un incredibile equilibrio di sí, di affermazioni, tutte al punto di venir pronunciate, tutte ricche d’infinita possibilità che impende e non si scarica mai. L’arte del non godere, questa è l’arte.

La poesia non è un senso ma uno stato, non un capire ma un essere.

  1. Nel manoscritto leggiamo: diciamo [N. d. E.].
    esprimiamo