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ii - il meriggio 209


a la squallida inedia eroe non seppe
durar si forte: né lassezza il vinse
635né deliquio giammai né febbre ardente:
tanto importa lo aver scarze le membra,
singolare il costume, e nel bel mondo
onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar la sua pietate
640serbi per l’uomo; e facile ribrezzo
déstino in lei del suo simile i danni,
o i bisogni o le piaghe. 11 cor di questo
sdegna comune affetto; e i dolci moti
a piú lontano limite sospigne.
645— Péra colui che prima osò la mano
armata alzar su l’innocente agnella
e sul placido bue: né il truculento
cor gli piegáro i teneri belati,
né i pietosi mugiti, né le molli
650lingue lambenti tortuosamente
la man che il loro fato, aimè! stringea. —
Tal ei parla, o signor: ma sorge in tanto
a quel pietoso favellar, da gli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta,
655pari a le stille tremule, brillanti,
che a la nova stagion gemendo vanno
da i palmiti di Bacco, entro commossi
al tiepido spirar de le prim’aure
fecondatrici. Or le sovvien del giorno,
660ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovanilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con gli eburnei denti
segnò di lieve nota: e questi audace
665col sacrilego piè lanciolla: ed ella
tre volte rotolò; tre volte scosse
lo scompigliato pelo, e da le vaghe
nari soffiò la polvere rodente: