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AVENIMENTO XIV


Arato sicioneo, vergendo da’suoi distrugger Locride, non potendo ciò sofferire e dicendo la cagione, fa i medesimi da quella rovina rimanere.

Tacevasi giá messer Camillo, e il magnanimo e umano atto di Carlo da piú di loro si sentiva lodare, e dalla bocca <li ciascuno dire che il magno Carlo e il nome e la natura portava di re, percioché era buono, e perciò si vedeva esser magnanimo. Conciosiacosaché di grande animo alcunoessere veramente non possa, che in sé bontá non abbia. E il segno di essere egli stato tale, fu perché in cotale virtú di umanitá dimostrò un sommo e maraviglioso atto. E, si come la grandezza dell’animo si dice essere di tutte le virtú ornamento, perché questa rende esse virtú maggiori e le illustra, dovendo il magnanimo avere in sé ogni bontá congiunta; cosi stimavano che nel rcal petto di Carlo una infinita bontá albergasse, la quale non solo in questo generoso atto, ma eziandio in tutte le altre virtú lo rendesse riguardevole. Laonde, da ogni parte celebrare sentendosi la clemenza mirabile di tanto prencipe, e la umanitá degna da essere onorata d’ogni maniera di lode e a perpetua memoria delle lettere consacrata, voltatosi messer Camillo a messer Fulvio, gli impose il seguitare. Per la qual cosa egli, non ricusandolo, cosi disse:

Io intendo, poiché nel passato avenimento s’è ragionato della umanitá di un re, dimostrarvi un lodevole e clemente atto d’un capitano nella vittoria di una cittá: quel che io credo che sia piu difficile a fare che ogni altra cosa, non potendo il piú delle volte un capitano vittorioso contenere se stesso, seguendo il corso della vittoria, di non rovinarla, mettendo gli edifici e tetti, come in simil casi è solito a farsi, a fuoco e fiamma, cosi portando l’uso e la dura legge della guerra. Nel che come questo capitano si portasse, fuori del commun costume alla detta cittá la rovina perdonando, m’apparecchio di raccontarvi.