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te meco serbo, da me giamai si parta. Oh quanta invidia io porto al cielo, che ti possedè e che in sé rinchiude cosi bella luce! E perché tu, o spirito beato, non mi tiri lá suso, accioché la mia anima si congiunga con la tua? Dal cielo e non da uomini mortali li furono concesse tante virtú e bellezze: però è ben degno che-, come creatura di celeste lignaggio, tu al cielo te ne ritorni. Tu per oltraggio di morte pur mi nascondi i tuoi begli occhi ; ma facciami ella quanto vuole, ché non può fuggire ch’io non vada nella tua imagine, la quale altamente io porto impressa nel core. E, si come gli occhi tuoi sereni portavano la mia pace, cosi, avendo quelli chiusi e oscurati la morte, mi ha lasciato in continua guerra; la virtú de’ quali fu tanta, che signoreggiava la mia mente, e ora con spietata lima mi scema la vita. Tu negli atti tuoi eri nobile e signorile e ne: sembianti umile. Tu eri il vero e compiuto albergo delle Grazie: teco faceva Amore soggiorno e teco nato pareva. Te Venere di se stessa ha fatta erede, ch’ogni bellezza eccedesti ; ond’io, quanto piú ne dicessi, conosco che meno assai detto ne avrei. Io veramente mi sento in ghiaccio e in fuoco, e da un freddo marmo esce l’ardente fiamma, a cui tanta forza è rimasa, che da un esangue e morto corpo sparge le sue faville. E se il viver mio per te sempre mi piacque, ora, non avendoti piú, giovami di morire. Le tue bellezze, le grazie, la leggiadria e la virtú furono i magi che in te mi trasformáro. Però io disio di chiuder gli occhi, per non veder doppo la tua minor bellezza. Oimè, quando sei morta, restò il mondo senza il suo sole, e gli occhi miei che non hanno altra luce! Maravigliomi bene com’io possa viver senza anima, la quale alla partita tua te ne portasti; il che non sarebbe possibile, se non fossero sciolti gli amanti d’ogni qualitade umana. O grande < viva forza d’amore, che cotanto contrasti alia ragione, dolore allegro, animosa timiditá, piacer noioso, sanitá inferma, rimedio che dái pena e uccidendo dái vita, che vuoi tu piú da me? Tu ponesti in me questo focoso disio, il quale era temprato da colei vivendo, che, essendo ora morta, piú che mai ravviva le mie fiamme. Dammi, ti prego, aita; allontana da me la tua