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potria dipingerle piú belle di quello che elle sono in effetto da essa natura fatte, ancorché egli sia quel solo a cui sia dal cielo concesso dono di fare nella pittura quello che solamente è credibile perché a lui far si vede. —

Disse allora messer Marcantonio Cornaro: — Chi ha prattica delle donne d’Arezzo e di Viterbo, parli di quelle, ché, oltre ch’io so certo che avrá onoratissimo e grandissimo soggetto, anderá la cosa pari, perché ciascuno si troverá nel fine aver delle sue udito e dell’altrui parlato. — Indi a poco disse il Molino: — Io non credo che ci sia alcuno fra questa compagnia che abbia lungamente abitato né nell’una né nell’altra cittá, e questo io lo comprendo dal silenzio che tiene ora ciascuno; ma io non so qual maggior lode si potranno lor dare che dire che elle abbiano posto al mondo due spiriti cosi elevati e di cosi chiaro ingegno, come è messer Pietro e messer Fortunio. Che potranno altro credere coloro che avranno questa considerazione, se non che elleno sieno donne di tanto intelletto e di tanto sapere quanto se ne possa in parte del mondo vedere? Dalla qual cosa la bellezza del corpo similmente si comprende; perché si sa bene che la natura per lo piú si diletta di porre fra le piú belle spoglie le piú da lei gradite e amate alme. — Magnifico Molino — disse allora lo Spira, — guardate che non vi crediate di far favore alle donne di Viterbo, e non diate lor biasmo, ricordando che dal mio ingegno si congetturi il loro, che m’hanno partorito. — Anzi — rispose il Veniero — questa è la maggior gloria che esse possano avere. — Lasciate che egli dica — disse l’Aretino, — ché le lodi di cotai uomini si possono comperare a peso di rubini e di smeraldi. —

Cosi con questi e altri tai soavi ragionamenti, con grandissimo lor diletto e piacere, questi onorati gentiluomini il terzo giorno de’ lor diporti tirarono a fine. E poscia, venutone i conti da pescare, fatte apparecchiar le barchette loro, a Vinegia di compagnia lieti e contenti si ritornarono.

IL FINE.