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di un animo il più ottuso, il più privo di sentimenti vivaci, che sia capace di vivere questa mia vita per una settimana sola, e pure io non sono intesa, no, non lo sono; ah si, hanno ragione, è
vero! Io ho da mangiare quanto voglio, da dormire quanto voglio, posso lavorare e non lavorare se mi piace: non sono innumerabili quelli che si chiamerebbero felicissimi se potessero fare questa mia vita? Dunque sono io che non mi contento mai, che ho dei desideri insaziabili (poichè il mangiare e il dormire non mi contenta), che formo l’infelicità mia, e l’altrui. È vero, io non me ne ero accorta! Se io potessi cambiare questa mia testa e questo mio cuore con la più sciocca testa ed il più freddo cuore che fosse al mondo, lo farei volontieri, e certo sarei allora più felice e più lieta.
E vorrei che tu fossi lieta, Nina mia, e che godessi della tua vita viaggiatrice ed osservatrice che io ti invidio con furore. Non vi è che una voce sola intorno al governo di Roma, e tutti sanno che non può andar peggio. Ci scrive Giacomo che è impossibile l’esprimere il sentimento delizioso ch’egli ha provato entrando a Firenze, e godendo della quiete e della sicurezza che vi regna1 a confronto dei timori e spaventi continui che non poteva far a meno di provare a Roma per i suoi amici. Ed a proposito di Giacomo, ti ringrazio delle sue nuove che mi dai; poi vuoi sentirmi a delirare? senti.