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Rincasando, pensavo a qualche regola di filologia, alla scuola; e nell’assenza di altri pensieri, gustavo come una soddisfazione e una consapevolezza di me medesimo che non aveva mai provato per l’addietro.

Così trascorse tutto l’autunno e tutto l’inverno che io non me ne avvidi nè pure.

Mi era inoltre affezionato a tante piccole cose che mi rendevano piena la vita: ad esempio la mia stanza d’affitto era per me un piccolo mondo: il letto, gli abiti bene spazzolati su la sedia, le scarpe messe in fila, i libri, i fogli, le carte disposte con simmetria, i lapis allineati secondo le lunghezze: abitudini d’ordine e di pulizia a cui attendeva con una scrupolosità singolare; e mi pareva di non star bene se non sapeva che tutto era a posto, tutto spolverato, tutto in assetto. Le mie relazioni non si estendevano oltre quelle della scuola; ed ogni mio svago consisteva in quella oretta che passavo la sera alla trattoria dove ci trovavamo in cinque o sei impiegati a pranzare: tutta brava gente, di gusti semplici, senza pretese e senza desideri. Finito il desinare, essi, sparecchiavano e facevano la partita, ed io andava a casa a studiare.