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tivo stretto e molto avvilito fra quei bambini, come io fossi stato un grosso giocattolo.

— Oh mio Dio! — esclamai fra me — dove mi sono andato a cacciare! Se mi vedessero i miei amici di F***, ne riderebbero per un mese... Carlo B*** ne farebbe la caricatura per tutti i salotti.

A questo pensiero arrossii lievemente e mi sentii sconsolato. Pure erano dolci e soavi quei volti e ogni tanto, vedendomi silenzioso e triste, si consultavano, allungavano le loro boccucce e parevano anche pensare: «Deve essere uno di quei professori cattivi! Chi sa a che cosa medita, chi sa che domande difficili ci farà mai adesso!» Qualche cosa bisognava pure che io in fine dicessi; ma lì per lì quelle poche regole di grammatica che sapevo e avevo ripetuto, mi giravano come un arcolaio, e non ci riusciva a prenderne una. Ma qualche cosa bisognava ben dire!

V’era un ragazzetto che poteva avere un tredici anni con due occhi neri, tanto vivi che parlavano da soli a due labbra capricciose su cui i denti davanti sporgevano fuori. Su di lui si posò la mia attenzione.

— Come si chiama lei? — domandai.