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borata che dava un po’ d’ombra, seguiva con gli occhi quei lavoratori.

Soltanto le teste e le spalle apparivano dietro le spighe, e il manipolo in una mano e nell’altra la falce: si avanzavano in fila, di fronte, movendosi come in ritmo; muti, rossi di sudore e recidevano, recidevano quelle spighe. Dietro erano le spigolatrici, curve, mute esse pure, oppresse dalla caldura senza vento che pioveva dalla serenità meridiana.

La schiera dei mietitori mi passò davanti ed ora la scorgevo da tergo, curva e allineata su le alte spighe, lasciando dietro di sè il campo brullo ed irto degli steli recisi.

Intanto da una casa non molto discosta si levò una spira di fumo, sottile, che saliva come un viticcio e si dilatava nel cielo. Poi suonò mezzogiorno. Allora il passo dei mietitori si arrestò e le falci caddero.

In breve tempo i covoni sparsi a regolari intervalli nel campo furono raccolti e ammucchiati in alcune biche, poi l’uno dopo l’altro quei lavoratori si avviarono verso la casa. «Ecco la soave ora del pasto e del riposo meridiano!» pensavo, e quella dolcezza dei campi finì per