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quartodecimo. 251

Sol ti vò ricordar, ch’è di tal sorte
     Quel, che per te d’amor desio mi preme,
     Che no ’l posso lasciar se non per morte,
     E però con la vita il lascio insieme.
     Oime, ch’innanzi à queste amate porte
     Mi spinge il crudel fato à l’hore estreme;
     Quì vuol quel rio destin, che mi conduce,
     Ch’io privi mè de l’una, e l’altra luce.

La fama, che suol falsa esser sovente,
     Non ti farà la mia sorte sapere:
     Perche dubbia non sia ne la tua mente,
     Te la potrai da te stessa vedere.
     Io vò, stando quì morto à te presente,
     Che l’empie luci tue possan godere
     Di veder questa mia terrena salma
     Quì, come tuo trofeo, pender senza alma.

Hor voi, superni Dei, s’alcuna volta
     A fatti di quà giù gli occhi volgete,
     Dapoi che m’è la maggior parte tolta
     De la vita, ch’à l’huom prescritta havete;
     Poi che la carne mia sarà sepolta,
     La mia memoria almen non nascondete.
     E per pochi anni tolti à la mia vita
     La fama del mio mal fate infinita.

Stava sopra la porta una fenestra,
     Ch’era ferrata à guisa di prigione,
     Dove il meschin con la sua propria destra
     Havea sospese già mille corone.
     Egli, c’ha la persona agile, e destra,
     Sopra, senz’altra scala il piè vi pone;
     E mentre il ferro, e ’l suo collo infelice
     Annoda, alza la voce, e cosi dice.

Queste corone ornar denno il tuo muro,
     Queste danno empia à te gioia, e diletto,
     Ond’io, che satisfarti ardo, e procuro,
     Vò compiacere al tuo crudele affetto.
     Come l’un nodo, e l’altro esser sicuro
     Scorge per fare il doloroso effetto,
     Cader si lascia, e resta alto sospeso
     Un’infelice, e miserabil peso.

La scossa data, e ’l calcitrar del piede
     Fer fare alquanto strepito à la porta.
     Subito l’apre il servo accorto, e vede
     Quanto à la casa lor tal peso importa.
     Tosto in aiuto altri conservi chiede,
     Et à l’uscio del morto il morto porta.
     Al qual, perche di già morto era il padre,
     Il pianto, e ’l rito pio diede la madre.

La sventurata madre alza la voce,
     Vedendo il lin, ch’al figlio il collo allaccia;
     Al volto, al sen con le percosse noce,
     E le canute chiome afferra, e straccia:
     Non però disacerba il duolo atroce
     Per pianto, ò per gridar, ch’ella si faccia.
     Al fin fe il funerale officio santo,
     Non senza universal cordoglio, e pianto.

La fama già battute havea le penne,
     E fatto d’Ifi il fin noto per tutto.
     Hor mentre per la terra il camin tenne
     La pompa con comun lamento, e lutto,
     Innanzi à quella porta à caso venne
     Il miserabil giovane condutto,
     Sopra la qual l’astrinse Anassarete
     A ber l’eterno oblio del fiume Lete.

Come sente passar l’empia donzella
     La trista pompa, e ’l general dolore,
     Che d’esser suta si spietata, e fella
     Già qualche pentimento havea nel core,
     Corre à veder, dove il romor l’appella,
     Sù la fenestra il funerale horrore.
     Et Ifi à pena, e quella vista oscura
     Mirò, che gli occhi suoi cangiar natura.

Tosto che in quella vista oscura, e tetra
     Ferma l’empia lo sguardo, e ’l morto vede,
     S’induran per l’horror gli occhi, e di pietra
     Si fanno: ella gli tocca, e à pena il crede.
     Vuol via fuggir, ma ’l passo non impetra,
     Che di già la durezza aggrava il piede;
     E in quel, che ’l piede, e ’l volto mover volse,
     A l’uno, e l’altro il sasso il moto tolse.