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libro

Qual animo fu il mio, quando m’accorsi
     D’esser restato sol nel crudo lido,
     E che la nave allontanarsi scorsi,
     Per timor del Ciclopo empio, et infido?
     Poi che più cenni à voi su ’l lito io porsi,
     Fui per alzar più volte irato il grido
     Per lamentarmi del negato aiuto,
     Ma pur per lo timor mi stetti muto.

Tacqui, perche ’l gridar non mi nocesse,
     Per non mi palesare à Polifemo;
     Temei, ch’al grido mio non mi prendesse,
     Che non desse il mio corpo al danno estremo.
     Io vidi bene in qual periglio stesse
     Ulisse, e anchor per lo timor ne tremo,
     Allhor che ’l mostro incontro al grido venne,
     E fe quasi affondar le vostre antenne.

Vidi, che con le braccia un monte prese,
     E poi spicconne un smisurato scoglio,
     E ver dove gridare Ulisse intese,
     L’aventò con tant’ira, e tanto orgoglio,
     Che fè, che ’l mare insino al cielo ascese.
     E tanta io ne sentij tema, e cordoglio,
     Che piansi il nostro legno, e ’l nostro fato,
     Come se dentro anch’io vi fossi stato.

Poi che più volte hebbe lo scoglio al monte
     Rubato, e trattol ver la nostra nave,
     E c’haveste schivati i danni, e l’onte,
     Onde anchor il mio cuor s’agghiaccia, e pave,
     E che senza quel lume hebbe la fronte,
     Che già fu scorta à l’opre infami, e prave;
     Alzando il grido infuriato, e cieco,
     Mandò mille bestemmie al sangue Greco.

Per non urtar ne le silvose piante,
     Mentre poi và ver l’empia sua contrada,
     Distese l’empio tien le mani avante,
     Ma non può far talvolta, che non cada.
     Che spesso in qualche scoglio urta le piante,
     Talvolta sotto al piè manca la strada,
     E mugghia per lo duol, per l’ira arrabbia,
     Con questo strido poi sfoga la rabbia.

Ó Dio, se i fati suoi crudi, e infelici
     Vorran mai ne le man far capitarmi
     Ulisse, ò alcun de’ suoi più fidi amici,
     Sopra cui possa à mio modo sfogarmi;
     Se mai le patrie più veggon radici,
     Se mai più contra me san mover l’armi,
     Io vo ben dir, che sia fermato il cielo,
     Che ’l foco agghiacci, e che riscaldi il gielo.

Se ’l suo fato maligno à me consente,
     Ch’io possa à modo mio vendetta farne,
     S’alcun posso afferrar de la sua gente,
     Stracciarlo intendo, e mille pezzi farne.
     E godrò di sentir sotto al mio dente
     Tremar la sua non anchor morta carne.
     Io vo del corpo suo far ogni stratio,
     Ne mai del sangue suo mi vedrò satio.

Havrò tanto piacer del suo tormento,
     D’havere il sangue suo falso bevuto,
     Che non fia nulla il dispiacer, ch’io sento
     D’haver l’unico mio lume perduto.
     Io me ne stava colmo di spavento,
     Per non mi far sentir, quieto, e muto,
     Mirando il crudo, et oscurato aspetto
     Tutto di sangue il volto, il mento, e ’l petto.

Mentre mi stò à mirar l’irata faccia,
     E la concavità senza il suo lume,
     E che crolla la testa, e che minaccia,
     Versando in copia le sanguigne spume,
     E veggo, ch’à scampar da le sue braccia,
     Mi sarebbe bisogno haver le piume:
     Puoi ben pensar, qual tema il cor mi tocchi,
     Che mi veggio la morte innanzi à gli occhi.

Già mi parea di pendergli da lato,
     E d’esser preda al suo vorace morso,
     E di veder ferito, e lacerato
     In ogni parte il mio misero dorso.
     E dopo havere il crudel mostro dato
     Al poco sangue mio l’ultimo sorso,
     Veder pareami in questa, e in quella parte
     L’ossa infelici mie divise, e sparte.