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terzodecimo. 232

E per mostrarsi gratioso, e bello,
     Co ’l rastro, e con la forca, e co ’l tridente,
     Pettina, et orna il suo rozzo capello,
     E netta con la vanga il crudo dente.
     Recide con la falce al mento il vello,
     Poi corre à l’acqua chiara, e trasparente.
     E stà quivi à specchiarsi intento, e fiso,
     Per comporsi la barba, il crine, e ’l viso.

Del sangue, e de la morte empia la sete
     Non si vede albergar più nel suo petto.
     Le navi passan via sicure, e liete
     Senza haver più di lui noia, ò sospetto.
     Hor mentre preso à l’amorosa rete,
     Pensa à quel, che da me brama diletto,
     Telemo à lui predice il suo destino,
     Ch’illustre fra Ciclopi era indovino.

Questo saggio indovin, dotto, et esperto
     Che mai d’augello alcun non fu ingannato,
     Disse. Ho veduto, ò Polifemo, aperto
     Quel, c’ha de l’esser tuo disposto il fato.
     Guardati pur, ch’io ti so dir per certo,
     Ch’un cavalier nel regno Itaco nato,
     Giungendo à caso à te dal lido Greco
     De l’occhio, che solo hai, ti farà cieco.

Ben tu sei quello, (il mostro al mago disse)
     Che più ne l’arte tua non vedi lume,
     Sia pur quel cavalier d’Itaca Ulisse,
     E per cercarmi in mar batta le piume;
     Che quando in questo punto anchor venisse,
     Un’altra innanzi à lui m’ha tolto il lume.
     Hor come vuoi, ch’io tema di costui,
     Se m’ha cecato un’altra innanzi à lui?

Schernisce l’indovino, e ’l grave passo
     Movendo và per la marina arena,
     E discorrendo va co ’l capo basso
     Qualche rimedio à l’amorosa pena.
     Tal’hor si torna al suo cavato sasso
     A dar riposo à l’affannata lena;
     E fagli, ovunque và, l’amor, che ’l coce
     Sempre haver me ne ’l core, e ne la voce.

Un monte lunge in mar tanto si stende,
     Che quasi l’onda il cinge d’ogn’intorno.
     Il fiero innamorato un dì v’ascende,
     Per volervi passar parte del giorno.
     Il gregge, se ben cura ei non ne prende,
     Va seco, e presso al suo pasce soggiorno.
     E giunge mentre ne la costa ei siede,
     Quasi al giogo co ’l crin, co ’l piede al piede.

Posato il pin, che suol guidar l’armento,
     Ch’arbor farebbe ad ogni grossa nave,
     Comincia à far sonar quello stormento,
     Che à lato havea di perforata trave;
     La fistula dà fuor l’usato accento,
     Più tosto strepitoso, che soave;
     E da lo stral d’Amor piagato, e punto,
     Col canto al dolce suon fa contrapunto.

Fu l’aspro canto suo tanto sonoro,
     Ch’udì ciascun, che volle il suo concetto.
     E Lilibeo, Pachino, Etna, e Peloro
     Quel canto udì, ch’al mostro uscì del petto.
     Et io, ch’in grembo al mio caro thesoro
     Il volto havea con mio sommo diletto,
     L’orecchie al suo parlar con gli altri tesi,
     E queste fur’ le note, ch’io n’intesi.

Lo splendor de le rose, e de’ ligustri,
     Mentre si stan nel più felice stato,
     Passan le guance tue vaghe, et illustri
     Co ’l ben misto color lucente, e grato.
     La tua fiorita età, sol di tre lustri,
     Sembra d’April quando è su ’l fiore un prato.
     Quanto di ben fra noi può dare il mondo,
     Tanto n’appar nel tuo viso giocondo.

Promette altrui la tua benigna fronte,
     Che tu sei d’ogni ben larga, e leale,
     Non men di quel, che suole essere il fonte,
     D’ogni suo don cortese, e liberale.
     Le vaghe luci tue non son men pronte
     Con lo splendor, ch’è in lor vivo, e immortale,
     A promettere altrui gioia, e mercede,
     Riposo, humanità, concordia, e fede.