A lui s’offerse. Ei di rossor dipinto,
A che, disse, ne vieni? a mirar forse
Il mio rossore? o madre, oh! perchè tanta
Speme d’onor mi lusingasti in vano? 135Come la madre al fantolin caduto,
Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
Che guata impaurito, e già sul ciglio
Turgida appar la lagrimetta, ed ella
Nel suo trepido cor contiene il grido, 140E blandamente gli sorride in volto
Perch’ei non pianga; un tal divino riso,
Con questi detti, a lui la Musa aperse:
A confortarti io vegno. Onde sì ratto
«L’anima tua è da viltate offesa?» 145Non senza il nume de le Muse, o figlio,
Di te tant’alto io promettea. Deh! come,
Pindaro rispondea, cura dei vati
Aver le Muse io crederò? Se culto
Placabil mai de gl’Immortali alcuno 150Rendesse a l’uom, chi mai d’ostie e di lodi,
Chi più di me di preci e di cor puro
Venerò le Camene? Or se del mio
Dolor ti duoli, proseguia, deh! vogli
L’egro mio spirto consolar col canto. 155Tacque il labro, ma il volto ancor pregava,
Qual d’uom che d’udire arda, e fra sè tema
Di far parlando a la risposta indugio.
Allor su l’erba s’adagiaro: il plettro
Urania prese, e gli accordò quest’Inno 160Che in minor suono il canto mio ripete.
Fra le tazze d’ambrosia imporporate,
Concittadine degli Eterni e gioja
De’ paterni conviti eran le Muse
Ne’ palagi d’Olimpo, e le terrene 165Valli non use a visitar; ma primo,