Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/120

114 discorso storico

Il secondo esempio ci vien somministrato dal Muratori nella dissertazione XXVI, dove, dopo aver fatto vedere con le leggi de’ Longobardi, quanto pochi uomini atti all’armi fossero esenti dal marciare all’esercito, si fa, tra l’altre, questa difficoltà: «Se allora l’Italia fosse stata al pari d’oggidì popolata, il menar tanta gente al campo più danno e confusione avrebbe recato che utilità.» Grave difficoltà senza dubbio, anzi tale da rendere inesplicabili quelle leggi, quando si sia supposto che gl’Italiani fossero ascritti alla milizia, come i Longobardi. Ma la supposizione su


    rono fra di loro.» (Annal. 584). E se avesse creduto di poter fondarsi su qualche altro documento, n’avrebbe di certo fatta menzione.
    In quanto all’interpretazione dell’altro scrittore, non si saprebbe come fare a discuterla, giacchè, come il lettore ha potuto vedere, non dice nemmeno qual sia la relazione che gli par di trovare tra le parole del testo, e il senso da lui immaginato. Ci si permetta, in vece, d’accennare una circostanza che rende ancor più singolare dalla parte sua la supposizione d’un tal pareggiamento tra i vincitori e i vinti. La faceva, questa supposizione, o almeno la dava fuori, nel 1792, cioè nel terz’anno della rivoluzion francese, uno de’ motivi più espressi, e degli scopi principali della quale era appunto di assoggettare i successori della nazion conquistatrice all’uguaglianza dell’imposizioni. E, in mezzo al rumore d’una tal rivoluzione, s’immaginava che una cosa simile fosse stata fatta tranquillamente, spontaneamente, dodici secoli prima! — Del resto, ho voluto dire uno de’ motivi e degli scopi d’allora, anzi del primo momento; giacchè anche allora ce n’erano già in campo di nuovi, e di che sorte! Le rivoluzioni.... ma che dico? come se questa si potesse mettere in un fascio con l’altre! Una rivoluzione, dirò dunque, nella quale non si questioni solamente dell’uso o delle condizioni del potere, o di chi ne deva essere investito, ma sia messo in questione il principio medesimo del potere, è un gran viaggio, che s’intraprende credendo di non aver a fare altro che una passeggiata. O, se ci si passa un’altra similitudine (che è un gran mezzo di dir le cose in breve, col rischio, si sa, di non dirle punto), è una scala, nella quale, stando giù, si prende per l’ingresso d’un piano abitabile quello che non è altro che un pianerottolo; e quando ci s’è arrivati, si scopre un’altra branca che non s’aspettava, e dopo quella, un’altra, e.... e a caposcala, al luogo dove si starà di casa, quando s’arriva? quando, voglio dire, comincia uno stato di cose, alla durata del quale si creda, e che duri in effetto? Ne’ singoli casi (giacchè quella rivoluzione, se fu forse la prima del suo genere, non fu certamente la sola), ne’ singoli casi, fin che quel momento non è arrivato, lo sa il Signore: in astratto, lo può dire ognuno. È quando, invece di cercare il principio del potere dove non è, cioè in un ente creato, contingente, relativo, qual è l’uomo, in un ente che, non essendo il principio di sè stesso, non può avere in sè il principio di nulla, si riconosce, o si torna a riconoscerlo dov’è, cioè nel suo Autore; è quando sia pubblicamente professato, e generalmente creduto che ogni potere viene da Dio. Cos’è, infatti, il potere di cui si tratta, se non una superiorità? dico una superiorità di diritto, che si vuole appunto per circoscriver gli effetti delle superiorità naturali o di fatto. E come mai trovar negli uomini il principio di questa superiorità? In alcuni? con che ragione? In tutti? è un assurdo. Ma appunto, dicono, appunto perchè non c’è negli uomini un principio di superiorità, c’è negli uomini il principio dell’uguaglianza; col mezzo e per opera della quale si crea poi una superiorità di diritto. E non s’accorgono che, per quanto la superiorità e l’uguaglianza siano oggetti diversi, anzi opposti, metter negli uomini il principio, tanto dell’una, quanto dell’altra, è, in ultimo, un medesimo errore. Per concepire come gli uomini avessero in loro questo principio d’uguaglianza, bisognerebbe poter concepire che ogni uomo fosse l’autore di sè medesimo. E non si potendo questo, bisogna pur riconoscere che gli uomini non possono essere uguali, se non in quanto abbiano ugualmente ricevuto, se non dipendentemente da Chi gli abbia costituiti tali, e perchè fin dove gli abbia voluti e costituiti tali. Quindi, non che quest’uguaglianza sia un principio, non può essa medesima avere la sua ragion d’essere, che in un principio superiore, in ciò di cui si vorrebbe far di meno, per la prima volta. Dicendo che è più facile piantare una città per aria, che stabilire uno Stato senza il fondamento della religione, Plutarco non fece altro che esprimere con una formola generale un sentimento sottinteso in tutti i fatti particolari dell’umanità. Non che l’umanità e Plutarco conoscessero, nella sua integrità e purezza, la dottrina divinamente espressa in quelle parole di san Paolo; ma negli errori positivi c’è sempre una parte di verità; e in tutte le false religioni c’era e c’è appunto la parte di verità necessaria alla stabilità d’un potere, cioè la nozione generalissima di qualcosa di superiore agli uomini, e da cui il potere di diritto, quello che si vuole e non si vede, derivi negli uomini. Per questo, gli auspizi del patriziato romano, le caste indiane, la missione di Maometto, tant’altre cose altrettanto o più assurde, hanno potuto servir di fondamento a degli Stati che son durati discretamente, o che durano ancora. Ma dove ha regnato il cristianesimo, ogni altra religione è diventata come