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zia, e si diè tutto alla sola cura de’suoi figliuoli. L’altro, per lo contrario, resistette1, e, sollecito unicamente di gloria, tutto il resto dopo le spalle gittato, proseguì per la via che aveva impresa. Se ancor vivesse, e se il suo carattere fosse stato al mio così conforme, come fu il suo genio, non avrebbe avuto migliore amico di me»2. Questa lettera affastellata di contraddizioni, d’ambiguità e d’indirette apologie, accenna l’individuo per circonlocuzioni, come se il nome ne fosse taciuto per cautela o per timore. Pretendono alcuni, che a Dante non si riferisca3; ma la lista, che

  1.      . . . . Avvenga ch’ei sentissi
    Ben tetragono ai colpi di ventura...
    Ste’ come torre fermo, che non crolla
    Giammai la cima per soffiar de’ venti.

    Purg. e Parad.

  2. Petr. Epist. edit. Ginev. an. 1601, p. 445.
  3. Tiraboschi, Storia della letter. Ital. vol. 9, lib. III, cap. II, §. 10. Che questa lettera riferiscasi a Dante, nessuno di buona fede, cred’io potrà negarlo, dopo che il conte Baldelli ha ciò provato all’evidenza. Se lo negò il Tiraboschi, pare che vi fosse spinto dalla bile, che in lui soperchiò al vedere con che boria il De Sade pubblicò questa sua scoperta, pigliandone occasione di schernire gli Italiani, perchè non l’avessero fatta essi primi; ond’è, che a rintuzzare il vanto, che davasi il biografo francese, lo storico della nostra letteratura, che forse dentro di se la sentiva altrimenti dalle lettere del Petrarca raccolse alcuni luoghi atti a rivocare in dubbio per un momento, se le