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e guardie accorrevano verso Montecitorio. Uno chiese addirittura a noi: – Che è successo? – Ma gentilmente non aspettò la risposta e volò via rapito dalla curiosità. Quando giungemmo in piazza della Rotonda, io ripensai al mio sindaco. Dov’era finito? Cercai di spiegare la mia inquietudine al deputato, ma era distratto. Un bar lì all’angolo attirò la sua attenzione. Fece fermare di colpo la carrozzella: — Prendiamo un cognac. Ci rimetterà in equilibrio. Parlava in prima persona plurale come parlano i re. Io gli chiesi il permesso di fare una corsa all’indietro fino al caffè Guardabassi per cercare il sindaco. Ma non volle: — Non sarebbe prudente, le assicuro. Prendiamo un cognac. Ne prese due, risalimmo in vettura, arrivammo al palazzo Braschi. Là era più conosciuto che sul portone di Montecitorio. Il portiere e le guardie lo salutarono con simpatica familiarità. — L’ascensore, – egli ordinò, e in un attimo ci trovammo al primo ripiano d’uno scalone papale tutto lucido di marmi. Passammo rapidamente da un usciere all’altro: – Onorevole.... Onorevole.... Sua Eccellenza.... Ma sì, subito.... S’accomodi qui. I due cognac e quelli ossequi l’avevano ormai calmato. Camminava sui tappeti, di sala in sala, a testa alta, senza levarsi il cappello. Aspettammo dieci minuti in un’anticamera coi divani di velluto rosso difesi da bianchi crocè come in un vagone di prima classe. Due volte in quei