spuglio aveva la sua ora, e il suo raggio di sole. Degli insetti minuscoli vi ronzavano intorno, nella luce tepida. Al tornare dell’inverno il cespuglio sarebbe scomparso e il sole e la notte si sarebbero alternate ancora sui sassi nudi e tristi, umidi di pioggia. Così erano scomparsi il casolare del gesso, e l’osteria di «Ammazzamogli» in cima al monticello deserto. Soltanto le rovine sbocconcellate si disegnavano nere nella porpora del tramonto. Il Biviere si stendeva sempre in fondo alla pianura come uno specchio appannato. Più in qua i vasti campi di Mazzarò, i folti oliveti grigi su cui il tramonto scendeva più fosco, le vigne verdi, i pascoli sconfinati che svanivano nella gloria dell’occidente, sul cocuzzolo dei monti; e dell’altra gente si affacciava ancora agli usci delle fattorie grandi come villaggi, per veder passare degli altri viandanti. Nessuno sapeva più di Cirino, di compare Carmine, o di altri. Le larve erano passate. Solo rimaneva solenne e immutabile il paesaggio, colle larghe linee orientali, dai toni caldi e robusti. Sfinge misteriosa,