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più graziose di tutti i dialetti d’Italia si incrociavano come fuochi di fila.

Quattro inglesi e due tedeschi, impassibili e serii, rappresentavano il nord in quella cornice vivacemente meridionale; ma i due tedeschi erano sposi di fresco, e senza derogare alla loro serietà, si tenevano abbracciati alla presenza di cinquanta persone.

Nel semicerchio di poppa, con una mano ferma al parapetto e girando coll’altra un occhialino d’oro — entrambe le mani rivestite di guanti color salmone — noi troviamo un’antica conoscenza. Ha il cappello sull’orecchio con una certa spavalderia civettuola, ha la cravatta La-Vallière svolazzante su un panciotto di neve, ha i calzoni perfettamente tesi sul suo polpaccio giovanile, ha i baffi ingommati, i capelli biondi, e si chiama Armando.

È proprio lui, l’elegante marchese, detto altrimenti il simbolo dell’eternità. I suoi rivali coetanei diventano magri, gialli e rugosi; egli li guarda con benevola compassione e seguita ad essere roseo come prima.

I suoi occhi sfavillanti di amabile malizia compivano, dietro le lenti, una accurata rivista del bel sesso. Ad un tratto si fermò dando segni di meraviglia — terse i cristalli coll’angolo ricamato del suo fazzoletto di batista e guardò con maggiore attenzione.