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cioè, una processura segreta come era uso in quei tempi — contro i fratelli Guerrazzi, Pietro Bastogi e correi.

Citato a comparire dinanzi al tribunale di polizia, l’autore della Battaglia di Benevento non negò la sua partecipazione all’ordinamento del funerale, ma negò recisamente che le statue rappresentassero cosa meno che innocente.

— O che cosa rappresentano, dunque, signor dottore?

— L’una la Costanza — illustrissimo signor commissario — l’altra la Storia, alludendosi colla prima alla fermezza d’animo con che il generale Colletta sopportò i patimenti della sua ultima malattia, colla seconda alla musa che presiede agli studi prediletti dal defunto.

— Ma quel pugnale, signor dottore?

— Oibò, illustrissimo signor commissario — rispose il Guerrazzi con quel suo risolino sarcastico che sconcertava i suoi avversari; — ecco una domanda che fa torto alle sue profonde e vaste cognizioni in fatto di simbolica... Il pugnale non è altro che lo Stilo.... Lei sa, illustrissimo signor commissario, la storia scrive collo stilo...

— Ho capito — s’affrettò a rispondere il Manetti mortificato da quella lezioncina.

Furono anche interrogati Temistocle Guerrazzi e il Bastogi. Il primo, quanto alle statue, rispose che queste erano state da lui copiate da due statue scolpite dal suo maestro, Emilio Demi, per S. M. l’imperatore del Brasile, rappresentanti l’una la Costanza, l’altra la Segretezza. Egli, riproducendole, lasciò intatta la prima e convertì nella Storia la seconda, togliendole dalle mani la chiave indicante segretezza e sostituendovi lo stilo.

Il Bastogi fu interrogato sulla provenienza dei denari coi quali erano state pagate le spese del funerale.

— I denari — rispose il futuro ministro delle finanze italiane — furono messi insieme mercè una colletta...

— E gli oblatori?

— Alla testa di tutti Pietro Bastogi, illustrissimo signor commissario; poi... cosa vuole ch’io ricordi?

E, difatti, il sor Pietro non aggiunse altro, quantunque le esortazioni a parlare non gli fossero mancate.