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ma in ciascuna di simili occasioni si è ridestato nel pubblico il rammarico di trovare unito al genio di questo giovine di sublime talento, il nefando vizio ec. ec.„

La vita scostumata di Tommaso Sgricci, ci ricorda quella d’un altro poeta, l’abate Giuseppe Borghi, che quando la bufera degl’Inni tuffati nella pila dell’acqua santa imperversò coi suoi ottonari dall’un capo all’altro della penisola, facendo quasi supporre allo straniero che la terra ove erano nati ed avevano scritto Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Paolo Sarpi si fosse addormentata carbonara nelle vendite del 1815 e del 1821 per svegliarsi biascicatrice di pater e di gloria nelle sagrestie e nelle canoniche, parve che meglio di qualsiasi altro manipolatore d’Inni si avvicinasse ad Alessandro Manzoni, capostipite e fondatore di quella dinastia di poeti intinti d’un cristianesimo inacquato e di manica larga. Donnaiuolo come un abate del secolo XVIII, il Borghi scriveva i suoi inni religiosi fra una conversazione galante e una cura di mercurio, perocchè il disgraziato poeta non pare che dalle lotte d’amore uscisse sempre colle membra sane. Nè, inoltre, pare che alla sola Venere dedicasse i ritagli del suo tempo. Nominato sotto-bibliotecario della Riccardiana, si attribuì a lui la sottrazione di alcuni preziosi manoscritti di quella biblioteca, alcuni dei quali poi furono ritrovati presso un libraio di Parigi, ove mano sconosciuta li aveva portati e venduti.

Nè questo abate travagliato dalla sifilide e fatto segno d’accusa che doveva essere falsa, se la giustizia non se ne immischiò, stonava di troppo nel quadro della società del tempo. Abbiamo già visto chi fossero coloro che concorrevano a formare il fior fiore della società, o, come oggi si direbbe, le classi dirigenti; ed a completare il quadro non manca che presentare al lettore il clero, che allora aveva nelle sue mani, insieme all’indirizzo delle anime, quello delle menti.