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78 xvii - zenobia


aspirò, le richiese; il padre mio

lieto ne fu. Ma, perché seco a gara
le chiedea Radamisto, al mio fedele
impose il genitor ch’armi e guerrieri
pria dal real germano
ad implorar volasse; e, reso forte
contro il rivale, all’imeneo bramato
tornasse poi. Partí; restai. Qual fosse
il nostro addio, di rammentarmi io tremo:
prevedeva il mio cor ch’era l’estremo.
Mentr’io senza riposo
affrettava co’ voti il suo ritorno,
sento dal padre un giorno
dirmi che a Radamisto
sposa mi vuol; che a variar consiglio
lo sforza alta cagion; che, s’io ricuso,
la pace, il trono espongo,
la gloria, i giorni suoi. Suddita e figlia,
dimmi, che far dovea? Piansi, m’afflissi,
bramai morir; ma l’ubbidii. Né solo
la mia destra ubbidí: gli affetti ancora
a seguirla costrinsi. Armai d’onore
la mia virtú; sacrificai costante
di consorte al dover quello d’amante.
Egle. Né mai piú Tiridate
rivedesti finora?
Zenobia. Ah, nol permetta il ciel! Questo è il timore
che affretta il partir mio. Non ch’io diffidi,
Egle, di me: con la ragion quest’alma
tutti, io lo sento, i moti suoi misura.
La vittoria è sicura.
ma il contrasto è crudel: né men del vero
l’apparenza d’un fallo
evitar noi dobbiam. La gloria nostra
è geloso cristallo, è debil canna,
ch’ogni aura inchina, ogni respiro appanna.