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258 xx - ipermestra


Danao. Eh! di’ che piú del padre

Linceo ti sta nel cor.
Ipermestra.   Nol niego, io l’amo:
l’approvasti, lo sai. Ma il tuo comando
se ricuso eseguir, credimi, ho cura
piú di te che di lui. Linceo, morendo,
termina con la vita ogni dolore;
ma tu, signor, come vivrai, s’ei muore?
Pieno del tuo delitto,
lacerato, trafitto
da’ seguaci rimorsi, ove salvarti
da lor non troverai. Gli uomini, i numi
crederai tuoi nemici. Un nudo acciaro
se balenar vedrai, giá nelle vene
ti parrá di sentirlo. In ogni nembo
temerai che s’accenda
il fulmine per te. Notti funeste
succederanno sempre
ai torbidi tuoi giorni. In odio a tutti,
tutti odierai, sino all’estremo eccesso
d’odiar la luce e d’abborrir te stesso.
Ah! non sia vero. Ah! non stancarti, o padre,
d’esser l’amor de’ tuoi, l’onor del trono,
l’asilo degli oppressi,
lo spavento de’ rei. Cangia, per queste
lagrime che a tuo pro verso dal ciglio,
amato genitor, cangia consiglio.
Danao. (Qual contrasto a quei detti
sento nel cor! Temo Linceo: vorrei
conservarmi innocente.)
Ipermestra.   (Ei pensa: ah! forse
la sua virtú destai. Numi clementi,
secondate quei moti.)
Danao.   (È tardi: io sono
giá reo nel mio pensiero.) Odi, Ipermestra:
dicesti assai; ma il mio timor presente