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atto terzo | 231 |
SCENA IX
Ismene e detti.
padre, giá la pietá: giá piú non vive
il misero german.
Antigono. Che dici!
Berenice. Io moro.
Ismene. Pallido su l’ingresso or rincontrai
del giardino reale. — Addio — mi disse —
per sempre, Ismene. Un cor, dovuto al padre,
scellerato io rapii; ma questo acciaro
mi punirá. — Cosí dicendo, il ferro
snudò, fuggí. Dove il giardin s’imbosca
corse a compir l’atroce impresa; ed io
l’ultimo, oh Dio! funesto grido intesi,
né accorrer vi potei:
tanto oppresse il terrore i sensi miei.
Alessandro. Chi pianger non dovria!
Antigono. Dunque per colpa mia cadde trafitto
un figlio, a cui degg’io
quest’aure che respiro! un figlio, in cui
la fé prevalse al mio rigor tiranno!
un figlio... Ah! che diranno
i posteri di te? Come potrai
l’idea del fallo tuo, gli altri e te stesso,
Antigono, soffrir? Mori: quel figlio
col proprio sangue il tuo dover t’addita.
(vuole uccidersi)