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atto primo | 15 |
e m’insulti e ti sdegni. Il cor di Serse
possiedi pur, non tel contrasto: io tanto
ignota a me non sono,
né van le mie speranze insino al trono.
Rossane. Non simular. Mille argomenti ormai
ho di temer. Da che ti vede, io trovo
Serse ogni dí piú indifferente; osservo
come attento ti mira; odo che parla
troppo spesso di te, che si confonde
s’io d’amor gli ragiono; e, mendicando
al suo fallo una scusa,
della sua tiepidezza il regno accusa.
Aspasia. Pietoso e non amante
forse è con me.
Rossane. Ciò, che pietá rassembra,
non è sempre pietá.
Aspasia. Troppa distanza
v’è fra Serse ed Aspasia.
Rossane. Assai maggiori
ne agguaglia Amor.
Aspasia. Ma una straniera...
Rossane. Appunto
questo è il pregio ch’io temo. Han picciol vanto
le gemme lá dove n’abbonda il mare:
son tesori fra noi, perché son rare.
Aspasia. Rossane, per pietá, non esser tanto
ingegnosa a tuo danno. A te fai torto,
a Serse e a me. Se fra le cure acerbe
del mio stato presente avesser parte
quelle d’amor, non ne sarebbe mai
il tuo Serse l’oggetto. Altro sembiante
porto nel core impresso; e Aspasia ha un core
che ignora ancor come si cambi amore.
Rossane. Tu dunque...