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atto primo | 187 |
questo misero affetto
d’un eroe cosí grande il sol difetto.
Ma è vero ancor che l’amor suo, la speme
era Demetrio; e che or lo scacci a caso,
credibile non è. Chi sa? Prudente
di rado è amor: qualche furtivo sguardo,
qualche incauto sospir, qualche improvviso
mal celato rossor forse ha traditi
del vostro cor gli arcani.
Berenice. Un sí gran torto
non farmi, Ismene. Io, destinata al padre,
sarei del figlio amante?
Ismene. Ha ben quel figlio
onde sedur l’altrui virtú. Finora
in sí giovane etá mai non si vide
merito egual: da piú gentil sembiante
anima piú sublime
finor non trasparí. Qualunque il vuoi,
ammirabile ognor, principe, amico,
cittadino, guerrier...
Berenice. Taci: opportune
le sue lodi or non son. De’ pregi io voglio
sol del mio sposo ora occuparmi. A lui
mi destinâr gli dèi;
e miei sudditi son gli affetti miei.
Ismene. Di vantarsi ha ben ragione,
del suo cor, de’ propri affetti
chi dispone — a suo piacer.
Ma in amor gli altèri detti
non son degni assai di fede:
libertá co’ lacci al piede
vanta spesso il prigionier. (parte)