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130 xviii - attilio regolo


gli anni giungono a lustri, e non si pensa

ch’ei vive in servitú. Qual suo delitto
meritò da’ romani
questo barbaro obblio? Forse l’amore,
onde i figli e se stesso
alla patria pospose? il grande, il giusto,
l’incorrotto suo cor? l’illustre forse
sua povertá ne’ sommi gradi? Ah! come
chi quest’aure respira
può Regolo obbliar? Qual parte in Roma
non vi parla di lui? Le vie? per quelle
ei passò trionfante. Il fòro? a noi
provvide leggi ivi dettò. Le mura
ove accorre il senato? i suoi consigli
lá fabbricâr piú volte
la pubblica salvezza. Entra ne’ tempii;
ascendi, o Manlio, il Campidoglio; e dimmi:
chi gli adornò di tante
insegne pellegrine,
puniche, siciliane e tarantine?
Questi, questi littori,
ch’or precedono a te; questa, che cingi,
porpora consolar, Regolo ancora
ebbe altre volte intorno: ed or si lascia
morir fra’ ceppi? ed or non ha per lui
che i pianti miei, ma senza pro versati?
Oh padre! oh Roma! oh cittadini ingrati!
Manlio. Giusto, Attilia, è il tuo duol, ma non è giusta
l’accusa tua. Di Regolo la sorte
anche a noi fa pietá. Sappiam di lui
qual faccia empio governo
la barbara Cartago...
Attilia.   Eh! che Cartago
la barbara non è. Cartago opprime
un nemico crudel; Roma abbandona
un fido cittadin. Quella rammenta