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atto terzo 117


qui mi conduce. A liberarlo io vengo,

vengo a chiederlo a te; ma reco il prezzo
della sua libertá. D’Armenia il soglio
m’offre Roma di nuovo; in mio soccorso
giá le schiere latine
mossero dalla Siria; al soglio istesso
te pur chiaman gli armeni: io, se tu vuoi,
secondo il lor disegno:
rendimi Radamisto; abbiti il regno.
Tiridate. Per un novello amante
invero il sacrifizio è generoso.
Zenobia. Ma eccessivo non è per uno sposo.
Tiridate. Sposo!
Zenobia.   Appunto.
Tiridate.   Ed è vero? e un tal segreto
mi si cela finor?
Zenobia.   Contro il consorte
dubitai d’irritarti; il tuo temei
giusto dolor; non mi sentía capace
d’esserne spettatrice; e almen da lungi...
Tiridate. Oh instabile! oh crudele!
oh ingratissima donna! A chi fidarsi,
a chi creder, Mitrane? È tutto inganno
quanto s’ascolta e vede:
Zenobia mi tradí; non v’è piú fede.
Zenobia. Non son io, Tiridate,
quella che ti tradí; fu il ciel nemico,
fu il comando d’un padre. Io non so dirti
se timore o speranza
cambiar lo fe’: so che partisti, e ad altro
sposo mi destinò.
Tiridate.   Né tu potevi...
Zenobia. Che potevo? infelice! — E regno e vita
e onor — mi disse — a conservarmi, o figlia,
ecco l’unica strada. — Or di’: che avresti
saputo far tu nel mio caso?