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atto terzo 111


SCENA VI

Tiridate e poi Mitrane.

Tiridate. Non intendo Zenobia, e non intendo

ormai quasi me stesso. Ella mi scaccia,
e perché non vuol dirmi. Offeso io sono,
e con lei non mi sdegno, e non ardisco
di crederla infedel. Suona in que’ labbri,
in quelle ciglia un non so che risplende,
che rigetta ogni accusa e lei difende.
Mitrane. Signor, liete novelle: è Radamisto
tuo prigionier.
Tiridate.   Dove il giungesti?
Mitrane.   Ei venne
per se stesso a’ tuoi lacci.
Tiridate.   E come?
Mitrane.   Appresso
a un guerrier fuggitivo, entrò l’audace
fin dentro alle tue tende. Incontro a mille
invano opposte spade,
dell’orrenda ira sua cercò l’oggetto:
lo vide, il giunse e gli trafisse il petto.
Tiridate. Che ardir!
Mitrane.   Tutto non dissi. Uscir dal vallo
sperò di nuovo, e l’intraprese, e forse
conseguito l’avria; ma rotto il ferro
l’abbandonò nel maggior uopo. E pure,
benché d’armati e d’armi
cresca contro di lui l’infesta piena,
egli è solo ed inerme, e cede appena.
Tiridate. Un di que’ due, che or ora
qui rimirai, l’empio sará.