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atto terzo 327


Arpalice. (Con chi parla costui?)

Ciro.   Dunque è palese
di giá la sorte mia?
Mitridate.   Nessuno ignora,
signor, che tu sei Ciro. Arpago il disse:
indubitate prove
a’ popoli ne die’; sparger le fece
per cento bocche in mille luoghi; e tutti
voglion giurarti fé.
Arpalice.   Scherza o da senno
Mitridate parlò?
Ciro.   Ciro son io.
Non bramasti vederlo? eccolo.
Arpalice.   Oh Dio!
Ciro. Sospiri! Io non ti piaccio
pastor, né re?
Arpalice.   Né tanto umil, né tanto
sublime io ti volea: ch’arda al mio foco
se troppo è per Alceo, per Ciro è poco.
Ciro. Mal mi conosci. Arpalice finora
me amò, non la mia sorte; ed io non amo
la sua sorte, ma lei. La vita e il trono
Arpago diemmi; e, se ad offrirti entrambi
il genio mi consiglia,
quei, che il padre mi die’, rendo alla figlia.
Oh, che dolce esser grato, ove s’accordi
il debito e l’amore,
la ragione, il desio, la mente e il core!
Arpalice. Dunque...
Mitridate.   Ah! Ciro, t’affretta.
Ciro.   Andiam. Mia vita,
mia sposa, addio.
Arpalice.   Deh! non ti cambi il regno.
Ciro. Ecco la destra mia: prendila in pegno.
          No, non vedrete mai
     cambiar gli affetti miei,