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atto terzo 191


i posteri di noi? Diran che in Tito

si stancò la clemenza,
come in Siila e in Augusto
la crudeltá. Forse diran che troppo
rigido io fui; ch’eran difese al reo
i natali e l’etá; che un primo errore
punir non si dovea; che un ramo infermo
subito non recide
saggio cultor, se a risanarlo invano
molto pria non sudò; che Tito alfine
era l’offeso, e che le proprie offese,
senza ingiuria del giusto,
ben poteva obbliar... Ma dunque io faccio
sí gran forza al mio cor? Né almen sicuro
sarò ch’altri m’approvi? Ah! non si lasci
il solito cammin. Viva l’amico, (lacera il foglio)
benché infedele; e, se accusarmi il mondo
vuol pur di qualche errore,
m’accusi di pietá, non di rigore. (getta il foglio lacerato)
Publio!

SCENA VIII

Tito e Publio.

Publio.   Cesare.

Tito.   Andiamo
al popolo che attende.
Publio.   E Sesto?
Tito.   E Sesto
venga all’arena ancor.
Publio.   Dunque il suo fato...
Tito. Sí, Publio, è giá deciso.
Publio.   (Oh sventurato!)