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112 xii - demofoonte


Demofoonte.   (S’io non avessi

della perfidia sua prove sí grandi,
mi sedurrebbe. Eh! non s’ascolti.) A’ lacci
quella destra ribelle
porgi, o fellon.
  (s’alza e va egli stesso a farsi incatenare)
Timante.   Custodi,
dove son le catene?
Ecco la man: non le ricusa il figlio,
del giusto padre al venerato impero.
Dircea. (Pur troppo il mio timor predisse il vero!)
Demofoonte.   All’oltraggiato nume
la vittima si renda, e, me presente,
si sveni, o sacerdoti.
Timante.   Ah! ch’io non posso
difenderti, ben mio!
Dircea. Quante volte in un dí morir degg’io!
Timante. Mio re, mio genitor...
Demofoonte.   Lasciami in pace.
Timante. Pietá!
Demofoonte.   La chiedi invan.
Timante.   Ma ch’io mi vegga
svenar Dircea sugli occhi,
non sará ver. Si differisca almeno
il suo morir. Sacri ministri, udite:
sentimi, o padre. Esser non può Dircea
la vittima richiesta. Il sacrifizio
sacrilego saria.
Demofoonte.   Per qual ragione?
Timante. Di’: che domanda il nume?
Demofoonte.   D’una vergine il sangue.
Timante.   E ben, Dircea
non può condursi a morte:
ella è moglie, ella è madre, è mia consorte.
Demofoonte.   Come!
Dircea.   (Io tremo per lui!)