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218 viii - adriano in siria


SCENA VI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano.   Nulla perdesti.

Io perdei la mia pace,
cara, negli occhi tuoi. L’arbitra sei
tu della sorte mia. Tu far mi puoi
o misero o felice,
e del tuo vincitor sei vincitrice.
Emirena. Piú rispetto sperava
da te la mia virtú. L’animo regio
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Adriano. (Bella fierezza!) E qual oltraggio soffre
la tua virtú dal mio sincero affetto?
Posso offrirti, se vuoi,
e l’impero e la man.
Emirena.   No, che non puoi.
Arbitro della terra,
sei servo alla tua Roma. Ella ha rossore
fra le spose latine
di contar le regine. È noto a noi
di Cleopatra il fato,
l’esule Berenice e Tito ingrato.
Adriano. Era piú nuova allora
la servitude a Roma. Or per lung’uso
è al giogo avvezza, e sollevar non osa
l’incallita cervice.
Emirena.   E, s’ella il soffre,
Sabina il soffrirá? Promessa a lei
è la tua man.
Adriano.   Nol niego. Anzi ne fui
tenero amante, e l’adorai fedele
quasi due lustri interi. Alfine eterni
hanno a durar gli amori? Io non suppongo
in lei tanta costanza. Avrá cambiato,
senza fallo, pensier, come d’aspetto
la mia sorte cambiò. Veduto allora, ecc.