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atto terzo 213


Adriano. Se grata esser mi vuoi, lasciami ormai

la pace del mio cor. Poco è sicura,
finché appresso mi sei. Subito parti,
io te ne priego. Ecco il tuo sposo: il padre
colá ritroverai. Lieti vivete:
e tutti tre spargete
questi deliri miei d’eterno obblio.
Emirena. Almen, signor... (volendogli baciar la mano)
Adriano. (non soffrendolo) Basta, Emirena. Addio.
Coro.   S’oda, Augusto, infin su l’etra
     il tuo nome ognor cosí;
          e da noi con bianca pietra
     sia segnato il fausto dí.1

Al suono di lieta e strepitosa sinfonia si scuopre la luminosa reggia del Sole. Comparisce il nume, assiso sull’aureo suo carro in atto di trattenere gli ardenti corsieri. S’affollano d’intorno a lui le Ore, le Stagioni e gli altri Geni, suoi ministri e seguaci; ed egli finalmente prorompe ne’ sensi seguenti:

LICENZA

Lo so, tacete, Ore seguaci. Al corso

voi m’affrettate invan: dal cielo ibero
non sperate ch’io parta in sí gran giorno.
So ben che il mio ritorno
dell’opposto emisfero
giá l’inquieto abitator sospira:
so che, giá desto, ammira
l’ostinata sua notte, il pertinace

  1. L’Adriano, ridotto dall’autore nella forma antecedente, da esso esclusivamente preferita, dovendo essere rappresentato alla corte di Madrid, in occasione del solenne giorno natale di Ferdinando sesto, ebbe aggiunta la seguente Licenza [Avvertenza dell’edizione parigina].