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atto terzo 207


Emirena. Qual è?

Farnaspe.   Vuoi che, traendo
delle catene sue l’indegna soma,
vada...
Emirena.   A morte?
Farnaspe.   No: peggio.
Emirena.   E dove?
Farnaspe.   A Roma.
Emirena. E che posso a suo pro?
Farnaspe.   Va’, prega, piangi,
offriti sposa ad Adriano: obblia
i ritegni, i riguardi,
le speranze, l’amor. Tutto si perda,
e il re si salvi.
Emirena.   Egli pur or m’impose
d’odiar Cesare sempre.
Farnaspe.   Ah! tu non devi
un comando eseguir dato nell’ira,
ch’è una breve follia. Dobbiamo, o cara,
salvarlo suo malgrado.
Emirena.   Ad altri in braccio
andar dunque degg’io? Tu lo consigli?
e con tanta costanza?
Farnaspe.   Ah! principessa,
tu non vedi il mio cor. Non sai qual pena
questo sforzo mi costa. Allor ch’io parlo,
non ho fibra nel seno
che non senta tremar; stilla di sangue
non ho che per le vene
gelida non mi scorra. Io so che perdo
l’unico ben, per cui
m’era dolce la vita. Io so che resto
afflitto, disperato.
grave agli altri ed a me. Ma l’Asia tutta
che direbbe di noi, se Osroa perisse,
quando possiam salvarlo? Anima mia,