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atto primo 177


l’appreso incendio, e quanti al cielo innalza

globi di fumo e di faville! Ah, fosse
raccolto in quelle mura,
ch’or la partica fiamma abbatte e doma,
tutto il senato, il Campidoglio e Roma!
Farnaspe. Osroa, mio re!
Osroa.   Guarda, Farnaspe. È quella
opera di mia man. (accennando l’incendio)
Farnaspe.   Numi! E la figlia?
Osroa. Chi sa? Fra quelle fiamme,
col suo Cesare avvolta,
forse de’ torti tuoi paga le pene.
Farnaspe. Ah, Emirena! ah, mio bene! (vuol partire)
Osroa.   Ascolta. E dove?
Farnaspe. A salvarla e morir. (come sopra)
Osroa.   Come! Un’ingrata,
che ci manca di fé, pone in obblio...
Farnaspe. È spergiura, lo so; ma è l’idol mio.
(getta il manto, ed entra tra le fiamme e le ruine della reggia)

SCENA XIII

Osroa solo.

Se quel folle si perde,

noi serbiamoci, amici, ad altre imprese.
Vadan le faci a terra. Al noto loco
ritornate a celarvi. (parte il séguito) E pure, ad onta
del mio furor, sento che padre io sono.
Non so quindi partir. Sempre mi volgo
di nuovo a quelle mura. Eh! non s’ascolti
una vil tenerezza. Ah! forse adesso
però spira la figlia, e forse a nome
moribonda mi chiama. A tempo almeno
fosse giunto Farnaspe. Il lor destino
voglio saper. Dove m’inoltro? Oh dèi!