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atto primo | 171 |
non so piú dove son, né chi son io.
Emirena. (Le angustie di quel cor risente il mio.)
Adriano. Se mai fosse timore il tuo ritegno,
senti, Emirena. Io degli affetti altrui
non son tiranno: ecco il tuo ben; lo rendo,
com’è ragione, al suo primiero affetto.
Emirena. (Emirena, costanza!) Io non l’accetto.
Farnaspe. Principessa, idol mio, che mai ti feci?
Son reo di qualche fallo?
Sei sdegnata con me? Dubiti forse
della mia fedeltá?
Emirena. Taci.
Farnaspe. Io son quello...
Emirena. Ma taci per pietá: n’è degno assai
lo stato in cui mi vedi.
Farnaspe. Almen rammenta...
Emirena. Di nulla io mi rammento:
nulla io so dir. Del mio destino avverso
abbastanza m’affanna
il tenor pertinace.
Se oppressa non mi vuoi, lasciami in pace.
Farnaspe. «Lasciami in pace»! Ubbidirò, crudele!
ma guardami una volta. In questa fronte
leggi dell’alma mia... No, non mirarmi,
barbara! se pur vuoi
che ubbidisca Farnaspe a’ cenni tuoi.
Dopo un tuo sguardo, ingrata!
forse non partirei,
forse mi scorderei
tutta l’infedeltá.
Tu arrossiresti in volto,
io sentirei nel core,
piú che del mio dolore,
del tuo rossor pietá. (parte)