Arbace. Io divenir ribelle?
Solo in pensarlo inorridisco. Ah, padre,
lasciami l’innocenza! Artabano. È giá perduta
nella credenza altrui. Sei prigioniero,
e comparisci reo. Arbace. Ma non è vero. Artabano. Questo non giova. È l’innocenza, Arbace,
un pregio, che consiste
nel credulo consenso
di chi l’ammira; e, se le togli questo,
in nulla si risolve. Il giusto è solo
chi sa fingerlo meglio, e chi nasconde
con piú destro artificio i sensi sui
nel teatro del mondo agli occhi altrui. Arbace. T’inganni. Un’alma grande
è teatro a se stessa. Ella in segreto
s’approva e si condanna,
e placida e sicura
del volgo spettator l’aura non cura. Artabano. Sia ver: ma l’innocenza
si dovrá preferir forse alla vita? Arbace. E questa vita, o padre,
che mai la credi? Artabano. Il maggior dono, o figlio,
che far possan gli dèi. Arbace. La vita è un bene,
che, usandone, si scema: ogni momento
ch’altri ne gode, è un passo
che al termine avvicina, e dalle fasce
si comincia a morir quando si nasce. Artabano. E dovrò per salvarti
contender teco? Altra ragion per ora
non ricercar che il cenno mio. T’affretta! Arbace. No, perdona: sia questo
il tuo cenno primiero
trasgredito da me.