Pagina:Metastasio, Pietro – Opere, Vol. II, 1913 – BEIC 1884499.pdf/128

122 vii - artaserse


Arbace.  Io divenir ribelle?
Solo in pensarlo inorridisco. Ah, padre,
lasciami l’innocenza!
Artabano.  È giá perduta
nella credenza altrui. Sei prigioniero,
e comparisci reo.
Arbace.  Ma non è vero.
Artabano. Questo non giova. È l’innocenza, Arbace,
un pregio, che consiste
nel credulo consenso
di chi l’ammira; e, se le togli questo,
in nulla si risolve. Il giusto è solo
chi sa fingerlo meglio, e chi nasconde
con piú destro artificio i sensi sui
nel teatro del mondo agli occhi altrui.
Arbace. T’inganni. Un’alma grande
è teatro a se stessa. Ella in segreto
s’approva e si condanna,
e placida e sicura
del volgo spettator l’aura non cura.
Artabano. Sia ver: ma l’innocenza
si dovrá preferir forse alla vita?
Arbace. E questa vita, o padre,
che mai la credi?
Artabano.  Il maggior dono, o figlio,
che far possan gli dèi.
Arbace.  La vita è un bene,
che, usandone, si scema: ogni momento
ch’altri ne gode, è un passo
che al termine avvicina, e dalle fasce
si comincia a morir quando si nasce.
Artabano. E dovrò per salvarti
contender teco? Altra ragion per ora
non ricercar che il cenno mio. T’affretta!
Arbace. No, perdona: sia questo
il tuo cenno primiero
trasgredito da me.