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38 i - didone abbandonata

SCENA XI

Gabinetto con sedie.

Didone, poi Enea.

Didone. Incerta del mio fato
io piú viver non voglio. È tempo ormai
che per l’ultima volta Enea si tenti.
Se dirgli i miei tormenti,
se la pietá non giova,
faccia la gelosia l’ultima prova.
Enea. Ad ascoltar di nuovo
i rimproveri tuoi vengo, o regina.
So che vuoi dirmi ingrato,
perfido, mancator, spergiuro, indegno:
chiamami come vuoi, sfoga il tuo sdegno.
Didone. No, sdegnata io non sono. Infido, ingrato,
perfido, mancator piú non ti chiamo;
rammentarti non bramo i nostri ardori:
da te chiedo consigli, e non amori.
Siedi. (siedono)
Enea.  (Che mai dirá?)
Didone.  Giá vedi, Enea,
che fra nemici è il mio nascente impero.
Sprezzai finora, è vero,
le minacce e ’l furor; ma Iarba offeso,
quando priva sarò del tuo sostegno,
mi torrá per vendetta e vita e regno.
In cosí dubbia sorte
ogni rimedio è vano:
deggio incontrar la morte,
o al superbo african porger la mano.
L’uno e l’altro mi spiace e son confusa.
Alfin femmina e sola,
lungi dal patrio ciel, perdo il coraggio,