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216 iii - catone in utica


Arbace. Né mi conosci?
Cesare.  No.
Arbace.  Son tuo rivale
nell’armi e nell’amor.
Cesare.  Dunque tu sei
il principe numida,
di Marzia amante e al genitor sí caro?
Arbace. Sí, quello io sono.
Cesare.  Ah! se pur l’ami, Arbace,
la siegui, la raggiungi; ella s’invola
del padre all’ira, intimorita e sola.
Arbace. Dove corre?
Cesare.  Al germano.
Arbace. Per qual cammin?
Cesare.  Chi sa? Quindi pur dianzi
passò fuggendo.
Arbace.  A rintracciarla io vado.
Ma no; prima al tuo campo
deggio aprirti la strada: andiam.
Cesare.  Per ora
il periglio di lei
è piú grave del mio: vanne.
Arbace.  Ma teco
manco al dover, se qui ti lascio.
Cesare.  Eh! pensa
Marzia a salvare, io nulla temo. È vana
un’insidia palese.
Arbace. Ammiro il tuo gran cor: tu del mio bene
al soccorso m’affretti, il tuo non curi;
e colei che t’adora,
con generoso eccesso,
rival confidi al tuo rivale istesso.
          Combattuta da tante vicende,
     si confonde quest’alma nel sen.
          Il mio bene mi sprezza e m’accende,
     tu m’involi e mi rendi il mio ben. (parte)