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atto terzo 215


aver pietá d’una infelice alfine
debolezza non è. (in atto di partire)
Arbace.  Férmati: e dimmi
quale ardir, qual disegno
t’arresta ancor fra noi?
Cesare.  (Questi chi fia?)
Arbace. Parla.
Cesare.  Del mio soggiorno
qual cura hai tu?
Arbace.  Piú che non pensi.
Cesare.  Ammiro
l’audacia tua, ma non so poi se a’ detti
corrisponda il valor.
Arbace.  Se l’assalirti
dove ho tante difese, e tu sei solo,
non paresse viltade, or ne faresti
prova a tuo danno.
Cesare.  E come mai con questi
generosi riguardi Utica unisce
insidie e tradimenti?
Arbace.  Ignote a noi
furon sempre quest’armi.
Cesare.  E pur si tenta,
nell’uscir ch’io farò da queste mura,
di vilmente assalirmi.
Arbace.  E qual saria
sí malvagio fra noi?
Cesare.  Nol so: ti basti
saper che v’è.
Arbace.  Se temi
della fé di Catone o della mia,
t’inganni: io ti assicuro
che alle tue tende or ora
illeso tornerai: ma in quelle poi
men sicuro sarai forse da noi.
Cesare. Ma chi sei tu, che meco
tanta virtú dimostri e tanto sdegno?