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atto terzo 143


Emira. E potesti cosí... Rivoca, oh Dio!
la sentenza funesta:
nunzio n’andrò di tua pietade io stesso...
Porgimi il regio impronto.
Cosroe.  Invan lo chiedi:
la sua morte mi giova.
Emira.  Ah! Cosroe, e come
cosí da te diverso? E dove or sono
tante virtú, giá tue compagne al trono?
Che mai dirá la Persia?
Il mondo che dirá? Fosti finora
amor de’ tuoi vassalli,
terror de’ tuoi nemici;
l’armi tue vincitrici,
colá sul ricco Gange,
colá del Nilo in su le foci estreme,
e l’Indo e l’Etiòpe ammira e teme.
Quanto perdi in un punto! Ah, se ti scordi
le leggi di natura,
un fatto sol tutti i tuoi pregi oscura.
Deh! con miglior consiglio...
Cosroe. Ma Siroe è un traditor.
Emira.  Ma Siroe è figlio;
figlio che, di te degno,
dalle paterne imprese
l’arte di trionfar sí bene apprese,
che fu, bambino ancora,
la delizia di Cosroe e la speranza.
So che, a pugnar qualora
partisti armato o vincitor tornasti,
gli ultimi e i primi baci erano i suoi;
ed ei lieto e sicuro
al tuo collo stendea la mano imbelle,
né il sanguinoso lume
temea dell’elmo o le tremanti piume.
Cosroe. Che mi rammenti!