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atto primo 113


Siroe.  Che dir poss’io?
Emira. Di’ che il tuo fallo è mio. Di’ pur ch’io sono
complice del delitto; anzi che tutta
è tua la fedeltá, la colpa è mia.
Capace ancor di questo egli saria. (a Cosroe)
Cosroe. Ma lo sarebbe invan. Facile impresa
l’ingannarmi non è. So la tua fede.
Emira. Cosí fosse per te di Siroe il core.
Cosroe. Lo so ch’è un traditore. Ei non procura
difesa né perdono.
Siroe. Difendermi non posso, e reo non sono.
Medarse. E non è reo chi niega
al padre un giuramento?
Laodice. Non è reo l’ardimento
del tuo foco amoroso?
Cosroe. Non è reo chi nascoso
io stesso ho qui veduto?
Emira. Non è reo chi ha potuto
recar quel foglio, e si sgomenta e tace
quando seco io ragiono?
Siroe. Tutti reo mi volete, e reo non sono.
               La sorte mia tiranna
          farmi di piú non può:
          m’accusa e mi condanna
          un’empia ed un germano,
          l’amico e il genitor.
               Ogni soccorso è vano,
          che piú sperar non so.
          So che fedel son io,
          e che la fede, oh Dio!
          in me diventa error. (parte)