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zionale alla loro intensità luminosa, poichè il chiarore va crescendo dal violaceo al giallo, mentre l’effetto chimico segue una progressione contraria.

Fatti al tutto analoghi si riproducono sull’ioduro d’argento, che è più fortemente smosso e decomposto sul violaceo, e sempre meno, di mano in mano che si progredisce verso il rosso. Laonde una lamina iodurata del Dagherre esposta per qualche tempo alla irradiazione dello spettro solare, e quindi ai vapori di mercurio ed alle solite immersioni nelle soluzioni d’iposolfito di soda e d’acqua stillata, si mostra bianchissima nella parte più fosca, cioè nel violaceo, e diventa gradatamente men candida a misura che s’accosta al giallo, ove percoteva il massimo chiarore: l’aranciato e il rosso, assai più illuminati dell’indaco e del turchino, presentano appena qualche traccia d’imbianchimento.

Poste queste nozioni, ognuno potrà dedurne la conseguenza relativa al Dagherrotipo. Gli oggetti pinti a più colori danno nella Camera oscura un immagine perfettamente simile all’originale, e pertanto composta di varie tinte. Ora, quantunque le irradiazioni tramandate dai corpi non siano così pure come quelle dello spettro solare, esse posseggono tutte le proprietà dei raggi semplici contenuti nella loro composizione. Quindi i lumi e le ombre, definitivamente impressi sulla lamina preparata, saranno più o meno decisi, non già in ragione della facoltà rischiarante di ogni punto dell’immagine, ma secondo la varia proporzione de’ raggi prismatici superiori o inferiori, che vi stan riuniti. Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni punto del quadro.