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idilli mitologici 171


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     — Sorgi, o ninfa, da l’acque e vienne a nuoto
(vedi come cocente il sole avampi,
sí che non ha l’armento ov’egli scampi)
al monte, ov’io t’attendo, arsiccio e vòto.
     Tosto il vedrai, di tua beltá devoto,
vestir di fronde e fiori i lidi e i campi;
e del celeste can gli accesi lampi
venir dolce a temprar Zefiro e Noto.
     Vedrai d’alto piacer tutto tremante
— Polifemo dicea — dal fondo interno
gioir del peso suo l’arso gigante.
     Indi l’orror di queste nebbie eterno
sgombro vedrassi a’ tuoi begli occhi avante,
ed a te, quasi ciel, rider l’inferno. —
 

17


     Trasse pur fuor de’ cupi fondi algenti
l’ignude membra, sovra l’onde uscita,
de le figlie del mar la piú gradita
di Polifemo ai dolorosi accenti.
     Giacque a lei presso il mar, tacquero i venti,
ché, ’n atto dolce e tutta in sé romita,
con gli occhi, ond’egli avea salute e vita,
rischiarò le sue tenebre dolenti.
     Ma che! mentre il meschin ristoro e posa
cercava a’ suoi dolori, in mezzo l’acque
sparve la ninfa immantenente ascosa.
     — Onda, s’è ver — disse egli allor — che nacque
in te la dea d’amor, come pietosa
se’ sí poco agli amanti? — E qui si tacque.