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idilli mitologici 169


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     Uscito al Sol da la spelunca alpestra,
rósa dagli anni, Polifemo, e rotta,
ove per entro a mezzo giorno annotta,
il crin d’edra s’attorse e di ginestra.
     Poi col gran pino, ond’egli arma la destra,
numerata la greggia e fuor condotta,
chiuse de la profonda orribil grotta
quella, ond’avea spiraglio, ampia fenestra.
     E, sollevando il grave antico sasso,
che di ben cento spanne era a misura,
disse con un sospir languido e basso:
     — Perché de l’empia, che il mio mal non cura,
mover non posso, a par di questa, ahi lasso!
quella pietra del cor rigida e dura? —

13


     — Qui, dove ne la cava atra fucina
s’affaticano a prova i fabri ignudi,
e ’l torto dio su le sonore incudi
i tuoni a Giove e l’arme a Marte affina;
     a me pena piú grave il ciel destina,
e ’n piú cocente incendio avien ch’io sudi,
e colpi nel mio cor piú fèri e crudi
Amor raddoppia, e ’n quest’alma meschina;
     anzi, novo gigante, oppresso i’ giaccio,
da’ tuoi begli occhi e fulminato e spento,
forse, crudel, perché tropp’alto intesi. —
     Piú volea dir, ma procelloso un vento
sorse, che ’l fier pastor d’ombra e di ghiaccio
cinse, e disperse i suoi sospiri accesi.