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CXXII

Al signor Giovanni Angelo Maccáfani, a Pereto


Della peste romana del 1649 e della ristampa del Mondo nuovo.

Da un prete paesano di V. S., il quale ora è qui presente al mio scrivere, io ho ricevuto la cara di lei, a cui non ho che rispondere fuor che ringraziarla, come fo e grandemente, della affettuosa memoria che tiene di me. Della quale oltracciò Ella è ricambiata, ma vantaggiosamente, non contentandomi io di solo riamar l’amico, ma sempre pretendendo di soprafarlo in amore; il che al soprafatto non credo sia incarico, ma piú tosto onore e gloria, essendo indizio in lui di maggioranza di merito. Ma discendiamo a soddisfare alle due dimande ch’Ella m’ha fatte dopo i compimenti.

Dico, quanto alla prima, che ’1 caldo in Roma è crudele e che la mortalitá dura tuttavia, anzi cresce, e massimamente negli spedali. Ben dicono i medici che essa comincia a mancare, e forse il lor detto è anco vero; ma intanto non è bugia quel che all’incontro dico io. Perché, se bene adesso muor manco gente, ciò avvien perché manco ve n’è; né maraviglia dee parere che ’l falcione tronchi ora minor numero di spiche, quando quasi tutto il campo s’è ridutto a stoppia. Chi sará vivo questo ottobre prossimo è un valentuomo, e se dopo l’anno maladetto potremo veder l’anno santo, avremo non picciola ventura. Al qual prezioso guadagno spirituale io esorto V. S. a serbar la sua vita in cotesto si sincero paese e sano, ove al presente si trova, e non venga per ancora a Roma, come par che nella sua lettera accenni di voler fare; ché, se bene il pericolo è cosa non certa, certa cosa è che v’è pericolo.

Per conto della sua seconda domanda, rispondo ch’io non ho ancora cominciato a ristampare il Mondo nuovo , perché il Manelfi, con chi giá m’era accordato, è morto repentinamente in questo comune influsso. Cerco io però di rattaccar la prattica con suo figlio, il quale non è men galantuomo che ’l padre e