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a viva forza. In virtú della quale, avendo io attribuito il tutto piú tosto a mala mia fortuna che a mancamento di V. S., ho sentito non collera verso lei ma dispiacer dentro a me stesso. Le due dette occasioni sono a lei note meglio ch’a me, essendo una l’avermi Ella ritardato in Napoli la sentenza ottenuta, e perciò fattomi perdere un semestro d’entrata; e l’altra l’avere esercitato poco diligente ministerio intorno ai libri da me mandatile, si che quegli si son poi venduti a men prezzo che non era la mia commessione, se pur vogliamo dar nome di poca diligenza a quello che è espressa trasgression d’ordine. Né ammetto in ciò la scusa che V. S. adduce, cioè che la gran maldicenza ed i maligni uffici de’ seguaci del Marino (dei quali Napoli sta pieno) abbiano cagionato ad essi libri tal bassezza di prezzo, mentre Ella appresso soggiunge che ciascun di loro n’ha voluto uno per saperne parlare in male; il che dovrá piú tosto essere stato accrescimento di spaccio che diminuzione, essendo piú il numero di quelli che le copie medesime, le quali non erano piú di dugento. Ora insòmma la conclusion sia che le due occasioni prestatemi da V. S. non hanno partorito in me quel ch’Ella pensa, ma son rimase sterili, ché cosi ho io voluto che rimangano. E se ben grido, noi fo perché sia stizzato con lei, ma perché il gridare è una cosa troppo naturale in chi perde, o avaro ch’egli si sia o liberale. Ché all’avaro il perdere dispiace perché gl’ impedisce l’accumulare, ed al liberal dispiace perché gl’ impedisce lo spendere.

Non altro. Le bacio le mani.

Di Roma, 4 di febraro 1636.

LXXVI

Al signor N., in Roma


Lo prega di restituirgli due sue scritture originali, le quali trattavam

della stampa dei libri.

Di casa [in Roma, tra il 1620 e il 1636].