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giá avevo intenzion d’andare, ti fo sapere ch’adesso non l’ho piu. La ragione è che, si come io, andando prima che sentissi leggere cotesta lettera, non avrei fatto male; cosi, andando ora che l’ho udita, sarei non tuo viso ma viso dello dio degli orti, cioè di fava, anzi di baccello. Perché del primo peccato, che è la libidine, io non avevo paura, mancandomi la parte dalla cintura in giú; ma del secondo, che è la miseria, temo pur troppo, possendo riceverne non poco danno. Atteso che, quando la disavventura portasse ch’io fussi una volta venduto, potrei poi facilmente andar vagando di padrone in padrone, tanto che alfine capitassi in mano di qualche ignorante, il quale, non conoscendomi per opera fatta da maestro famoso, mi lasciasse mangiar dalla polvere o guastare dal fumo. —

Questo disse il ritratto. Ma V. S. non badi alle sue parole, ché ha poco cervello e fanciullesco. Anzi piú tosto miri alla mia buona volontá e si vaglia di quella nel proprio modo ch’io l’ho proposto di sopra, cioè ricevendo da me in danari il valor d’essa pittura. Tanto piú che V. S. non ha bisogno di mia effigie, quando sia vero ch’Ella mi tenga scolpito nel cuore per mano non del Santafede ma della santa fede dell’amicizia, come nella sudetta sua lettera formatamente m’ ha detto e confermatomelo appresso con diffusa essagerazione. Senza che, la copia si suol bramar da chi non possiede l’originale; e V. S. è padrona di me stesso, dal quale è stata cavata quella figura, benché io sia deteriorato di forma e fattomi vecchio, ed essa si mantenga nel primo stato. Col qual fine bacio a V. S. le mani.

Di Parma, 9 d’aprile 1615.

XXX

Al mede;


Ancora del ritratto.

Ricevo una di V. S. del 26 di giugno, nella quale Ella parimente m’avvisa come la sua persona costi in Parigi è in pubblica stima di tutta la gioventú e degli studenti, ed appresso