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243.Chinasi per baciar, ma par che tremi,
che non si sdegni poi quando si desti.
Folle che pensi? misera che temi?
Se sapessi quai doglie il Ciel t’appresti,
per mitigar tanti cordogli estremi
da’ bei rubini un bacio almen torresti.
Fallo non è, poi che d’Amor t’accendi,
furto non è, se quanto dái ti prendi.

244.Ei, che leggier dormiva, e ’n parte tratto
s’avea del sonno il naturai desio,
a quel moto si scosse, e stupefatto
le luci in prima, e poi le labra aprio.
— Chi se’ tu — disse. Ed ella in languid’atto,
e ’n suon piano e sommesso, — Io mi son io. —
Stupisce Adon quando di lei s’accorge,
e da le piume a reverirla sorge.

245.L’accesa Donna de le braccia belle
ai bei membri gli fa groppi tenaci.
Il bel Garzon se ne sottragge e svelle,
e dá repulsa a quegli assalti audaci.
Le vive rose allor, le vive stelle
spargon preghi, sospir, lagrime e baci,
da far, non che gentil tenero core,
adamantino ghiaccio arder d’Amore.

246.— Fia dunque ver, ch’un raggio amato e caro
mi neghi almen — dicea — de’ lumi tuoi?
E sarai si crudel, sarai sí avaro
a chi piú t’ama assai che gli occhi suoi?
SI poco curi il mio tormento amaro,
che ’n tale stato abbandonar mi vuoi?
Angue giá non son io crudo e maligno,
né tu sei di diaspro, o di macigno.

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